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Rilevanza probatoria delle linee guida nei casi di malpractice in ambito sanitario

  Pubblicato il 22 Ott 2015  12:54
L'esercizio della professione medica è soggetta, parimenti alle altre professioni, alla responsabilità penale e civile. Nell'accertamento della responsabilità professionale del sanitario va sempre avuto riguardo al fatto che l'attività medica sfugge a regole rigorose e predeterminate e che la pratica medica richiede, talora, iniziative potenzialmente rischiose e, talora, da adottarsi senza indugio.

Nell'ambito della professione sanitaria le linee guida possono svolgere un ruolo importante quale atto di indirizzo per il medico. Tuttavia, non essendo queste né tassative né vincolanti, non possono sopprimere l'autonomia e la libertà del professionista nelle scelte terapeutiche.
Com'è noto le linee guida e le buone pratiche mediche sono assurte a rango di parametro normativo con la legge 8 novembre 2012, n. 189 che, nell'art. 3, ha escluso la rilevanza penale della colpa lieve dell'esercente le professioni sanitarie che, nello svolgimento della propria attività, si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Il tentativo è stato quello di oggettivare e uniformare le valutazioni e le determinazioni medico-scientifiche sottraendole all'incontrollato soggettivismo dell'esercente la professione medica.

Va evidenziato come una certa parte della dottrina e della giurisprudenza abbia fortemente censurato la scelta del Legislatore di parametrare la responsabilità medica alle "linee guida" e alle "buone pratiche" "accreditate dalla comunità scientifica" e, per molte ragioni.
In via principale in quanto, rispetto alle comuni regole cautelari che disciplinano altre attività, le linee guida non possono caratterizzarsi da una rigidità applicativa. In secondo luogo, perché non tutte le linee guida possono venire in considerazione (si pensi a quelle ispirate a logiche di contenimento dei costi), ma solo quelle che hanno di mira la salute del paziente. In terzo luogo perché in Italia non esiste un sistema qualificato di accreditamento e, ancora, perché non tutte le linee guida hanno la medesima valenza scientifica (potrebbero essere obsolete o inefficaci) e le circostanze concrete potrebbero suggerire una condotta diversa da quella prescritta dalle stesse linee guida. Appare dunque chiaro che l'espressione "linee guida" riassume una realtà multiforme e difficilmente riducibile ad un minimo comune denominatore. Tali ampi margini di incertezza rendono, in alcuni casi, altamente difficile l'indagine giudiziale che, evidentemente, dovrà essere demandata ad un perito, non disponendo il Giudice dei mezzi conoscitivi per verificare se esistano, relativamente alla fattispecie concreta su cui è chiamato a decidere, delle linee guida e in quale misura siano accreditate presso la comunità scientifica.

Le sopra estese censure sono state oggetto di ponderata considerazione anche da parte della Suprema Corte che ha posto in luce i pericoli che incombono in questo campo: la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali oppure occulte tra i membri di una comunità scientifica; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche. Di fronte ad una tale complesso scenario appare evidente che il giudice, chiamato a valutare la condotta del medico, non possa assumere un ruolo passivo ma debba svolgere un penetrante esame critico enfatizzando così il suo tradizionale ruolo di peritus peritorum.

Inoltre, per l'accertamento della colpa medica, potranno essere utilizzate quale parametro solo quelle linee guida che risultino rispondenti alle regole della migliore scienza medica: attraverso le indicazioni fornite dalle linee guida il giudice potrà individuare eventuali condotte censurabili, eventualmente attraverso l'ausilio di consulenze volte a verificare eventuali particolarità specifiche del caso concreto, che avrebbero potuto imporre o consigliare un percorso diagnostico-terapeutico alternativo rispetto a quello indicato dalle linee guida.

È tuttavia indubbio che l'ingresso delle linee guida nella legislazione abbia contribuito a circoscrivere maggiormente la fattispecie della responsabilità, valorizzando l'elemento psicologico e, di fatto, dando luogo ad una abolitio criminis parziale degli articoli 589 e 590 del codice penale, avendo ritagliato due sottofattispecie una, che conserva natura penale e, l'altra, divenuta penalmente irrilevante. Pertanto, alla stregua del decreto Balduzzi, l'osservanza delle linee guida accreditate da parte dell'esercente la professione sanitaria costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti.

Restano fuori dal paradigma di accertamento e valutazione della colpa, tratteggiato dalla riforma, tutte le ipotesi in cui linee guida e buone pratiche, accreditate dalla comunità, scientifica manchino ovvero quando la questione di cui si discute abbia ad oggetto elementi del trattamento sanitario che esulino dall'aderenza o meno alle direttive suddette. Non solo. L'adesione alle indicazioni contenute nelle linee guida, non necessariamente pone il professionista sanitario al riparo da profili di responsabilità penale in quanto, dovendo il medico perseguire, con scienza e coscienza, l'unica finalità della cura del malato, sarà tenuto a disattenderle ogni qualvolta le linee guida non siano conformi a detta finalità. La verifica circa il rispetto delle linee guida va, pertanto, sempre affiancata ad un'analisi della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce dell'effettiva situazione in cui il medico si è trovato ad operare. E, pertanto, non vi sarà esonero da colpa, nel caso in cui l'esercente la professione sanitaria si sia attenuto alle linee guida e alle buone pratiche accreditate mentre, tenuto conto della specifica condizione clinica del paziente, avrebbe dovuto discostarsene. In questo caso, però, deve trattarsi di un errore macroscopico, perché immediatamente riconoscibile da qualunque altro medico che si trovasse nella posizione del primo.

La giurisprudenza formatasi successivamente all'ingresso nella legislazione del decreto Balduzzi ha chiarito che l'effettiva portata della disposizione è limitata alla sola ipotesi di imperizia lieve, restando, fuori dalla previsione della norma la colpa, anche lieve, che sia consistita in negligenza o imprudenza. Difatti, se le linee guida contengono esclusivamente regole di perizia, ne consegue che la colpa lieve, a cui fa riferimento l'art. 3 del decreto Balduzzi, è esclusivamente l'imperizia lieve, non rientrando così nell'alveo di applicazione della nuova disciplina i casi di lieve negligenza e imprudenza.

Circa la misura della perizia richiesta dall'esercente la professione medica, la Suprema Corte di Cassazione, in più arresti, ha evidenziato come, nel caso di errore del medico specialista, sia necessario un atteggiamento di maggiore severità in quanto, in tale ipotesi, si richiede al sanitario quella conoscenza e quella particolare abilità e perizia proprie di chi ha acquisito un titolo specialistico. In tale fattispecie, la colpa è ravvisabile nell'essere inescusabile e, cioè, nel difetto della necessaria preparazione ed abilità tecnica da parte del medico. Si potrebbe pertanto asserire che la diligenza richiesta all'esercente la professione sanitaria è una diligenza doppiamente qualificata. Maggiore è il bagaglio culturale e lo specifico settore di competenza, maggiore è la diligenza richiesta e l'aspettativa del paziente.

Si parla, invece, di imprudenza, quando la condotta attiva del medico sia stata avventata, ingiustificata ovvero sia stata posta in essere senza le cautele prescritte dalla comune esperienza o dalle leges artes ovvero con modalità diverse da quelle doverose.

La negligenza, al contrario dell'imprudenza, presuppone una condotta omissiva, ovverosia una condotta disattenta o superficiale che non rispetti quelle norme cautelari di diligenza che è legittimo attendersi da persona esercente la professione sanitaria.

In tema di gradazione della colpa e di distinzione tra colpa lieve e colpa grave, si è sostenuto che rileverebbe, anche in ambito penale, il criterio generale previsto dall'art. 2236 c.c.. La disposizione prevede che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave. Detto criterio varrebbe quanto meno come regola di esperienza cui il giudice può attenersi nel valutare l'addebito di imperizia, sia quando si versi in una situazione emergenziale, sia quando il caso implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. L'imperizia professionale di conseguenza, presenterà un contenuto variabile, da accertarsi caso per caso, in relazione ad ogni singola fattispecie, rapportando la condotta effettivamente tenuta dal medico alla natura e alla specie dell'incarico professionale ed alle circostanze concrete in cui la prestazione deve svolgersi.

Dunque, tenendo ben chiaro che vi sono contesti nei quali la linea di confine tra il lecito e l'illecito è spesso incerta, si può chiosare asserendo che, mentre le linee guida e le buone pratiche costituiscono unicamente alcuni dei parametri variabili con cui valutare la condotta tenuta dal medico, la scienza e la tecnologia risultano le uniche fonti certe, controllabili, affidabili.